Non cacciate Ararat
Roma. Dal 1999 23mila richiedenti asilo sono passati per il centro kurdo a Testaccio, minacciato di sgombero con altre 800 associazioni romane. Un luogo di accoglienza, ritrovo e orientamento dove i kurdi ricostruiscono la propria identità
Un bicchiere di chai prima di raccontare il Kurdistan è d’obbligo. La zuccheriera fa il giro, insieme al cucchiaino. Alcuni ragazzi potano le piante all’ingresso del centro: «È quasi primavera, è tempo di potare».
E poi rami e foglie serviranno all’accensione del grande fuoco del Newroz, sabato prossimo. L’anno nuovo kurdo è cominciato e il grande falò segnerà una nuova nascita.
QUEST’ANNO A ROMA IL FUOCO del Newroz avrà un significato diverso: sarà acceso mentre intorno al centro Ararat infuria la tempesta, le nuvole scure dello sgombero. Lo stesso destino di 800 associazioni romane, minacciate dalle procedure previste dalla Corte dei Conti e alle quali la delibera 140/2015 della giunta Marino e la 19 del 22 febbraio scorso della giunta Raggi non fanno che aggiungere problemi mettendo a bando gli immobili concessi a organizzazioni culturali e sociali. E stracciando decenni di realtà alternative, vive, che hanno arricchito Roma, cementato comunità, fornito servizi che il pubblico non ha offerto.
IL CENTRO CULTURALE KURDO Ararat è tra quelli nel mirino. La somma chiesta dal Comune è inferiore a quelle presentate a altre associazioni (15.007,46 euro, il debito calcolato dal Campidoglio), ma comunque impossibile da pagare. In ogni caso, ci dicono, è il contenuto della delibera ad essere inaccettabile.
Per questo Ararat è entrato nella rete di organizzazioni che da mesi combatte per impedire gli sgomberi. Che, carte alla mano, sono già stati decisi nonostante la mozione 11 del 9 febbraio del Consiglio Comunale che parla della volontà di adottare «ogni atto idoneo finalizzato alla provvisoria sospensione dei provvedimenti amministrativi».
La mozione seguiva, nel caso di Ararat, ad una lettera (datata 31 gennaio) inviata dal Dipartimento Patrimonio Sviluppo e Valorizzazione: «La concessione non può essere rinnovata e non può essere consentito il mantenimento del canone ridotto. Si invita pertanto l’associazione Ararat a rilasciare bonariamente il bene entro 30 giorni dal ricevimento della presente».
Ma non erano trascorsi neppure due di quei 30 giorni quando il Dipartimento ha redatto la determina che ordina la riacquisizione dello stabile da parte del Comune.
«ALL’INCONTRO del 21 febbraio l’assessore al Bilancio, Andrea Mazzillo, si era detto stupito che Ararat fosse nella ‘lista nera’. A sentir lui non dovevamo rientrarci. E invece la determina era già pronta», ci dice una volontaria di Senza Confine mostrandoci la determina che ordina la riacquisizione del bene, datata 1 febbraio. Il giorno dopo, dunque, l’ingiunzione di sgombero del 31 gennaio: «La lettera era già pronta: la macchina burocratica è partita e va avanti in modo autonomo».
«A noi chiedono 15mila euro – continua – Rispetto ad altre associazioni sono spiccioli. Ma non è questo il punto: mirano a dividerci e con alcuni ci sono riusciti. C’è chi ha già riconsegnato le chiavi. Noi non andiamo via e non accettiamo la logica del bando. Ad Ararat sono transitate dal 1999 23mila persone richiedenti asilo. È qui che hanno trovato accoglienza, orientamento, assistenza legale. Hanno ritrovato la propria cultura, negata nel paese da cui fuggivano. Mettano questo a bando. Qual è il valore sociale di quest’attività, qual è il criterio con cui la valuti?».
IL GATTO SIYASI, pelo nero, tre zampe, si aggira tra i tavolini e la piccola cucina che continua a sfornare chai. «Lo abbiamo adottato nel 2008 e lo abbiamo chiamato siyasi, politica: lui ha chiesto asilo politico e noi glielo abbiamo dato». Azat scherza. Obiettore di coscienza, si è rifiutato di vestire l’uniforme dell’esercito turco e ha trovato rifugio in Italia. È uno dei 23mila kurdi che in 18 anni è passato per Ararat.
Il centro è nato nel 1999 con i rifugiati kurdi arrivati in Italia con il leader del Pkk Ocalan ma non solo. Tanti dormivano per strada, in quella che fu ribattezzata la cartonopoli di Colle Oppio. Vennero occupati due edifici, uno a Piazza Bologna e uno in via Nazionale. Gli sgomberi furono immediati.
La terza occupazione, invece, ha resistito. Da allora Ararat vive nel cuore di Testaccio, nell’ex Mattatoio, accanto alla Scuola Popolare di Musica di Giovanna Marini, anch’essa a rischio sgombero.
UN NOME NON SCELTO A CASO: Ararat è il monte dove, leggenda vuole, si arenò l’Arca di Noè. Ma è anche il nome della nave che portò in Italia i primi rifugiati kurdi. Dalla loro volontà di ricostruire un’identità negata negli Stati di origine è nato il centro romano.
Quasi un consolato, scherzano qui: «Da quasi due decenni è il luogo da cui ripartire, è l’aria del nostro paese, rifugio dalla repressione – dice Azat – Ci si aiuta a vicenda, ognuno dà quel che ha: c’è chi insegna la lingua kurda ai bambini nati in Italia, chi le danze tradizionali. C’è chi fa il giardiniere e chi i lavori di ristrutturazione. C’è chi segue i nuovi arrivati tra pratiche burocratiche e servizi, dalla domanda di asilo all’assistenza sanitaria. E chi, in questi anni, si è ricostruito una vita, ha un lavoro e una famiglia e dona denaro, con cui gestiamo le attività».
Poco distante dalla palazzina, dove sono stati creati spazi di condivisione, la biblioteca, la postazione internet, gli uffici, sorge il giardino Azadi (“libertà”), dove sono state piantate specie tipiche del Kurdistan. L’edificio, abbandonato e pericolante, è stato completamente ristrutturato: «Abbiamo speso 40mila, più del doppio di quanto il Comune ci chiede ora – ci spiegano – Tutto autofinanziato, tutto lavoro volontario. In mano abbiamo il riconoscimento del Campidoglio: nel 2006 ha riconosciuto il valore sociale e culturale di Ararat e ci ha dato questo luogo in concessione con un atto ufficiale e con il successivo verbale di consegna, del giugno 2007. Paghiamo un affitto e ci prendiamo cura di questo posto».
CAHIDA ACCENDE una sigaretta: è in Italia dal 2000, è arrivata da Nusaybin. «La mia città è stata distrutta, come Kobane. Dopo le elezioni [del giugno 2015] Erdogan ha distrutto il Bakur, il Kurdistan turco. Da mesi non ho notizie dalla mia famiglia: non c’è elettricità né internet».
Davanti a lei sta una giovane, in mano un bicchiere di tè: «Non parla italiano, è arrivata un mese fa da Batman con il ricongiungimento familiare – ci spiega Cahina – Si è sposata per procura, dopo tre anni che non vedeva il fidanzato».
Altri arrivano, ognuno con una storia diversa: un anziano che si è rivolto ad Ararat perché non aveva informazioni sulla sua richiesta di asilo («Ad Udine gli hanno detto che sono fermi al febbraio 2016»), un ragazzo dalla Toscana («Sono venuto qui perché è la casa dei kurdi»), uno yazidi che nel 2014 è atterrato a Roma dopo il massacro dell’Isis a Sinjar («A Fiumicino gli hanno detto di rivolgersi ad Ararat»).
«IN UNA CITTÀ GRANDE come Roma è facile perdere la propria identità – continua Azat – Ararat dà gli strumenti per esprimere le tue radici e riscoprirle. E per tenere i contatti con la tua terra. Da qui sono nate le iniziative a sostegno di Rojava: la Staffetta per Kobane, la raccolta fondi per la Casa delle Donne e l’ospedale di Kobane e quelli per il Bakur devastato dalla guerra di Erdogan, dove il lavoro è eclissato e i greggi sterminati. Abbiamo lanciato da poco l’adozione a distanza di famiglie kurde in Turchia: già 2mila famiglie in Europa hanno aderito. Lì si resiste e qui si resiste. Siamo il ponte tra Occidente e Medio Oriente: anche questa è una forma di rivendicazione, esistere è resistere».
Ora si deve resistere allo sgombero. Anche per questo sabato si accenderà il fuoco del Newroz. L’appuntamento è a Ararat, Testaccio.
di Chiara Cruciati, Il Manifesto