Elif Shafak: cose turche

“Potenzialità” era una parola infida: una volta dicevano tutti che la Turchia aveva grandi potenzialità, e guarda com’era andata a finire. Perciò lei pure si era convinta che le sue oscure potenzialità, in definitiva, non avrebbero portato a nulla». Così riflette amara Peri, la protagonista di Le tre figlie di Eva della scrittrice turca Elif Shafak. E malinconica appare pure lei quando la incontriamo in un caffè nei pressi di Regent’s Park a Londra, dove vive da qualche anno. Altissima, i grandi occhi verdi segnati dal kajal, l’espressione imbronciata, Shafak sorseggia un tè nero, le mani inanellate da grossi turchesi e lapislazzuli.

Le tre figlie di Eva, in testa alle classifiche in Turchia e in uscita per Rizzoli il 10 novembre, è il suo quindicesimo libro (decimo romanzo), uno spaccato acuto e impietoso della società turca contemporanea dove storie personali si intersecano a quelle del Paese. Al centro ci sono tre giovani donne musulmane, Shirin, Mona e Peri, che si incontrano per una breve stagione all’università di Oxford nel 2000. Ma il confronto con la cultura occidentale, la libertà, la cultura e l’amore, all’inizio inebriante, risulterà fatale: Peri farà un drammatico, precipitoso dietrofront. Esattamente come la Turchia degli ultimi tempi.

«Sì, la Turchia sta precipitando pericolosamente indietro e questo è molto triste», riflette Shafak. «Fino a una decina di anni fa il mood era completamente diverso. C’era un grosso supporto pubblico per l’entrata, oggi invece le relazioni con l’Occidente hanno toccato il minimo storico. Critico il governo turco per non aver ottemperato ai criteri richiesti ma anche le tendenze populiste di paesi che usano la Turchia come l’“altro” nelle loro campagne, allontanandola». Un approccio miope, secondo lei. «Perché ha dato man forte agli isolazionisti, ai nazionalisti e ai religiosi, che ora dicono: “Vedete? L’Ue non ci vuole” o “l’Ue non è la sola opzione. Ci sono anche il Pakistan, l’Arabia Saudita, la Russia”. La Turchia quindi scivola a est, diventando più autoritaria. Parlare della membership turca è diventato un sogno quasi impossibile, eppure è necessario tenerlo vivo».

Il terrorismo e il tentativo di colpo di stato dell’estate scorsa hanno peggiorato le cose. «È stato terribile, sbagliato e io condanno il colpo di stato», si accalora. «Come quelli precedenti nei ’60, ’70 e ’80 ha creato violazioni gigantesche dei diritti umani. E ora ci ritroviamo con le purghe. Migliaia e migliaia di persone hanno perso il lavoro, sono detenute in cercere, i loro passaporti confiscati. Ho molti amici in prigione, scrittori e accademici. Io difendo la libertà di pensiero e non voglio che siano trattati in questo modo». Eppure nel libro la buona borghesia istanbuliota, ritratta a tavola in una lussuosa villa sul Bosforo, considera la democrazia uno spreco di tempo e denaro. «È triste, ma c’è un sacco di gente che dice che abbiamo bisogno di uno Stato forte, di un “baba”, un padre che ci guidi. Che la democrazia è roba da occidentali. Molti hanno sogni neo-ottomani. Trovo queste idee pericolose, ma sento certi discorsi anche nelle cerchie più sofisticate, come quella del libro. Persone che parlano inglese, viaggiano, hanno contatti internazionali e lavori all’estero, eppure sono molto nazionaliste».

Il suo libro Le tre figlie di Eva (Rizzoli)sarà in libreria dal 10 novembre.

A pagare le conseguenze di questo nuovo isolazionismo sono soprattutto le donne. «L’Akp, il partito al governo, ha una visione patriarcale del mondo e la società è sessista. Ci sono politici che negano l’eguaglianza tra i generi e che considerano disdicevole per una donna persino ridere rumorosamente in pubblico. I ministri vogliono che ci concentriamo sulla maternità. Abortire è diventato molto difficile, al punto che ormai lo fa soltanto chi può andare in cliniche all’estero. Le altre rischiano la vita». Anche la violenza è cresciuta drammaticamente. «Gli stupri e i femminicidi sono aumentati ma i politici tacciono. E le donne sono molto divise tra loro. È necessario rispettare le differenze e coltivare la sorellanza per combattere il patriarcato. Io stessa, democratica e liberale, ho criticato il divieto del velo in Università, perché non ha senso bloccare l’ingresso alle donne velate e accogliere senza problemi uomini fondamentalisti. Le donne devono essere istruite, riportate nello spazio pubblico. Non cacciate via». Con tre milioni di rifugiati sulle spalle la Turchia ha anche problemi di ordine pubblico. «A livello umanitario l’accoglienza è sicuramente da elogiare ma non c’è alcuna strategia, nessun piano per istruzione e lavoro. Molti di loro vivono per strada, nei parchi delle città. E molte famiglie danno in sposa le loro figlie bambine anche come seconde e terze mogli, perché pensano che sia più sicuro».

Femminista laica e paladina delle minoranze, Shafak ha abbracciato l’Europa dopo anni di nomadismo. Nata in Francia ha seguito la madre, diplomatica, ad Ankara, Madrid e Colonia. A vent’anni è tornata a Istanbul per studiare Relazioni internazionali per poi ripartire alla volta di Boston, del Michigan e dell’Arizona, dove ha insegnato. «Ho appartenenze multiple, sono un’anima globale», dice. Anche il suo matrimonio con il giornalista Eyu?p Can è stato segnato dal pendolarismo tra Londra e Istanbul fino allo scorso anno, quando lui si è trasferito nella capitale britannica. «È molto difficile per lui lavorare in Turchia». Oggi la famiglia, con i figli Zelda, 10 anni, e Zahir, 8, è riunita sotto lo stesso tetto a Pimlico. Shafak ama Istanbul ma ci torna sempre col cuore in gola. «Come scrittrice la trovo soffocante». Perché? «In Turchia gli scrittori sono personaggi pubblici, amati oppure odiati anche per ragioni che non hanno nulla a che fare con quello che scrivono. È entusiasmante, perché significa che le storie sono importanti e che la gente legge, ma anche opprimente, perché la letteratura ha bisogno di libertà per esistere. Quindici anni fa ho iniziato a scrivere direttamente in inglese, mi sento più libera e più leggera, ma in Turchia dà fastidio a molti. Dicono che ho scelto “la lingua degli occidentali”, che ho “abbandonato la madrelingua”. Invece non ho abbandonato nulla, è possibile sognare in più lingue. La mentalità ottocentesca del nazionalismo non è la mia, questa è l’età del movimento e delle migrazioni. La mia vera terra è quella delle storie». L’accusa di tradimento non le è stata rivolta solo a livello linguisitico. Dieci anni Shafak è stata processata per aver insultato la Turchia con La bastarda di Istanbul, in cui ha toccato il tema tabù del genocidio degli Armeni. Non fu una bella esperienza. «Ho vissuto con le guardie del corpo alle costole per due anni. Poi sono stata denunciata di nuovo per un articolo. Nel mio Paese ogni scrittore, giornalista, professore universitario sa che a causa delle parole può essere denunciato, processato, messo in prigione, esiliato, linciato sui social media. E se sei una donna è ancora peggio. Il linguaggio è sessista, aggressivo. Ogni singola parola può metterti nei guai».
Elif Shafak: cose turche

È probabile che questo clima crei una sorta di paranoia. In un’ora e mezza di conversazione Shafak è riuscita a non fare mai il nome di Erdogan, il dittatore autocrate di Ankara, riferendosi genericamente alla “situazione”. «C’è molta autocensura in Turchia a causa della “situazione”. E se qualcuno affermasse il contrario non gli crederei affatto. Tutti esercitano un certo autocontrollo anche se non ne parlano, perché è imbarazzante. Ma c’è una differenza, per me, tra fiction e non fiction. Esprimere le mie idee in un articolo mi mette ansia. In un romanzo sono più libera e coraggiosa perché abito in un mondo immaginario».

È ironico che Shafak si trovi a vivere nel Regno Unito che solo pochi mesi fa, per spingere la Brexit, ha sventolato proprio l’argomento xenofobo, in particolare la paura della Turchia. Ride. «Sì. È stato interessante perché la campagna Leave ha usato la Turchia come “l’altro”, e io non mi dimenticherò mai il giorno in cui ho visto un poster per strada in cui era scritto che i turchi erano alle porte. 75 milioni di turchi stavano arrivando in Uk! Tutti sapevano che non era vero ma la propaganda ha trionfato». Incoraggiare il dialogo è necessario. «Per molti, in Francia come qui, l’Ue significa finanza, economia. Per me rappresenta valori che non do per scontati perché so che potremmo perderli. E nonostante l’Unione abbia bisogno di riforme trovo bellissima l’idea di andare al di là dello stato nazione, della tribù, di unire gente diversa attorno a ideali condivisi: Stato di diritto, separazione dei poteri, rispetto dei diritti umani, libertà di espressione».

Nel romanzo il carismatico e arrogante professor Azur (suo alter ego) cerca di insegnare a studenti di fede diversa cosa è Dio. Shafak non è religiosa – «non approvo il modo in cui le religioni dividono le persone tra “noi” e “loro”» – ma assai curiosa dell’idea di Dio. «Mi sono sempre sentita vicina agli agnostici e ai mistici di tutte le tradizioni, dal sufismo all’ebraismo, al cristianesimo, al taoismo. Mi affascina il viaggio individuale di chi si confronta con la fede e il dubbio». Questa dialettica non è una faccenda strettamente religiosa. «Scrivere un libro, trasferirsi in una città nuova, innamorarsi, sono tutti atti di fede. Non sappiamo cosa succederà».

Consapevole di questo, il professore incita i suoi studenti al confronto perché dibattere è un po’ come innamorarsi: alla fine ci si trasforma, si cambia. Anche leggere un libro può farci “innamorare” degli altri, proiettarci oltre certe barriere… «Assolutamente sì. Perché mostrandoci tanti personaggi – e tanti punti di vista – mette in dubbio la nostra personale verità. Ci apre la mente. I libri ci spingono a interrogarci e le domande sono più importanti delle risposte. La letteratura rende possibile l’incontro al di là dei confini nazionali, etnici, religiosi, attraverso l’empatia». In questo senso ha davvero una funzione politica. «Quando leggiamo la storia di qualcuno, in quello spazio di solitudine che creano le pagine, costruiamo dei ponti, siamo profondamente connessi. Tutti i fondamentalisti hanno una cosa in comune: la disumanizzazione dell’altro. È il motivo per cui il nazista odia l’ebreo e il membro dell’Isis tortura lo yazida: vedono gli umani come specie diverse. L’arte, e soprattutto la letteratura, fanno il percorso opposto, mettendoci davanti agli occhi la nostra comune umanità. Per questo sono così importanti».

MINI BIO

1971 Nasce a Strasburgo figlia di un filosofo e di una diplomatica.
1996 Si laurea in Relazioni Internazionali ad Ankara con un master in Gender Studies.
1998 Pubblica Pinhan, che vince il Great Rumi Award.
2002 Il suo Il palazzo delle pulci (Rizzoli) diventa un bestseller.
2005 Sposa Eyup Can, direttore di Radikal da cui ha due figli, Zelda e Zahim.
2006 La bastarda di Istanbul (Rizzoli) vince l’Orange Prize. L’autrice viene denunciata per aver offeso l’identità turca. Esce Latte nero (Rizzoli) sulla depressione post parto.
2009 Pubblica Le quaranta regole dell’amore (Rizzoli).
2011 Viene assolta al processo e pubblica La casa dei quattro venti.
2014 È la volta di La città ai confini del cielo (Rizzoli).
2016 Il 10 novembre esce Le tre figlie di Eva (Rizzoli).
(31 ottobre 2016)

http://d.repubblica.it/attualita/2016/10/31/news/elif_shafak_scrittrice_turca_intervista-3286493/