Nusaybin, una città sotto croprifuoco
Nusaybin è solo una delle tante città del Kurdistan che ha subito il coprifuoco. Giulia Sabella per Radio Bullets ha incontrato alcuni degli sfollati che sono scappati a Mardin.
94 giorni, dal 14 marzo al 4 giugno. Ecco quanto è durato l’ultimo coprifuoco imposto a Nusaybin, città curda in Turchia che si trova lungo il confine con la Siria.
Incontro Feriyat, una vedova di 36 anni che con i 7 figli è scappata da Nusaybin e che ora vive a Mardin, in una casa che le hanno messo a disposizione delle persone che lavorano per la municipalità. Ha resistito ben 18 giorni, passati tra il rumore dei proiettili e quello delle bombe, ma poi se n’è andata: la casa traballava, racconta, e aveva paura per i suoi figli. Lei è solo una delle oltre 70mila persone che hanno abbandonato le proprie case e hanno cercato rifugio a Mardin, città che negli ultimi anni si è trovata ad accogliere migliaia di profughi: prima gli yazidi che fuggivano da Sinjar, poi i siriani e i curdi che scappavano da Kobane e infine, ora, gli sfollati interni, i curdi che scappano dalle città sottoposte a coprifuoco. Una misura voluta ufficialmente per combattere il PKK ma la situazione è più complicata: Erdal Kuzu, avvocato che lavora per İnsan Hakları Derneği, associazione turca per i diritti umani, spiega infatti che, di fatto, non ci sono basi legali per proclamare il coprifuoco.
Questo può essere imposto durante uno stato di emergenza, come era già successo sempre nel Kurdistan negli anni ’90. Adesso però ci si appella all’articolo 5442/11 c della della legge provinciale, secondo il quale i governatori “possono prendere le misure necessarie per garantire la pace e la sicurezza lungo il confine”. Poco importa che non ci sia una definizione chiara di coprifuoco o che non venga spiegato nei dettagli quanto dovrebbe durare o come dovrebbe essere attuato. Nell’ultimo anno, da quando cioè il partito filocurdo Hdp è entrato in Parlamento, sono decine le città che sono state sottoposte a questa misura: da Nusaybin a yuksekova, a Cizre a Sirnak, fino a Idil, Lice e al quartiere di Sur della città di Diyarbakir.
Intanto il Parlamento turco ha votato una legge che garantisce l’immunità ai soldati: questo significa che loro non potranno essere perseguiti per eventuali violazioni o violenze commesse contro i civili nelle operazioni di anti-terrorismo.
Intanto, Stando alle fonti governative, in tutto il Kurdistan turco sono almeno 355mila i civili che hanno abbandonato le proprie case, ma il numero potrebbe essere molto più alto. Lo stesso vale per il numero dei morti: secondo Ankara 165 civili avrebbero perso la vita in queste operazioni, mentre i cosiddetti terroristi uccisi sarebbero almeno 600. Peccato che spesso, per essere definiti terroristi, basti solo cercare di proteggersi o parlare in curdo.
Tra gli altri sfollati che incontro c’è anche quella di Ali, che vive insieme alla sua famiglia in una casa alla periferia di Mardin. Lui spiega come sia andato dal governatore per chiedere di poter tornare a Nusaybin a prendere il resto dei suoi cari e di come gli sia risposto di tornare a Mardin. Nella città infatti ancora non si può entrare e il loro timore è che la Turchia voglia distruggere i quartieri della città per ricostruirli e insediarci dei turchi. “Non lasceremo che ci portino via la nostra terra” dice il padre Sabri, un anziano che è costretto al letto dal diabete, che non ricorda più se di anni ne ha 80 o 90 ma che comunque non vuole smettere di combattere.
Secondo Nazim Kok, membro del consiglio generale dell’Hdp, la situazione è simile a quella degli anni ’90, quando il Kurdistan era sotto attacco. Ma, secondo lui una differenza c’è: mentre allora la popolazione cercava di scappare lontano dalla guerra, andando a Istanbul, Ankara, Smirne e addirittura in Europa, adesso nessuno vuole lasciare le proprie case. La gente scappa, sì, ma rimane comunque vicino alla sua città, anche quando questa viene ridotta in macerie, nella speranza di poter rientrare.
Per ascoltare
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