Turchia al voto tra violenze e incertezza: “situazione esplosiva”

Mentre il paese continua a precipitare in una spirale di violenze, le elezioni di domenica potrebbero consegnare un risultato identico a quello di giugno, senza una vera maggioranza e con gli assetti bloccati

L’ultima notizia è che, dei 24 osservatori inviati dal Consiglio d’Europa a monitorare il voto, nessuno visiterà le città del sud-est a maggioranza curda; nonostante sia evidente che sarebbe soprattutto quella la zona da tenere sott’occhio. Il “niet”, a quanto pare, è arrivato direttamente da Ankara; che – a dispetto della massiccia presenza militare – avrebbe ammesso di non poter garantire la sicurezza dei delegati in quell’area del paese. Un modesto imbarazzo, comunque, rispetto a quello che il governo turco si troverebbe ad affrontare qualora il gruppo finisse a passeggio tra le mura crivellate del centro storico di Diyarbakir: dove perfino la moschea di Fatih – patrimonio Unesco risalente al 1522 – è finita più volte sotto il fuoco dei tiratori scelti.

Ancora ventiquattr’ore e la Turchia andrà alle urne, lasciandosi alle spalle la campagna elettorale più sanguinosa dell’intera storia repubblicana. Per la seconda volta in appena quattro mesi, i turchi saranno chiamati a votare in quello che si annuncia come il definitivo referendum sul presidente Recep Tayyp Erdogan: dopo 12 anni di governi monocolore, a giugno gli elettori avevano negato la maggioranza assoluta al suo Akp, facendo sfumare il progetto di riforma costituzionale che avrebbe consegnato enormi poteri al presidente-sultano. Da allora, i fragili equilibri interni al paese hanno preso inesorabilmente a saltare. Il sud-est curdo – reo di aver voltato le spalle a Erdogan, ricompattandosi sotto la guida dell’Hdp di Selahattin Demirtas – è ripiombato in una spirale di violenze come non se ne vedevano dagli anni 90. Dopo due anni di tregua, l’esercito ha lanciato una nuova offensiva contro i guerriglieri del Pkk; ma gli assedi di Cizre, Diyarbakir e di numerosi villaggi e cittadine danno il segno di come siano stati soprattutto i civili a pagarne il prezzo. Nel frattempo, un nuovo giro di vite sull’informazione ha portato in carcere almeno trenta giornalisti, oltre a sancire la chiusura di quotidiani ed emittenti d’opposizione, due delle quali militarmente occupate in diretta televisiva; mentre una stessa cellula dello Stato islamico è riuscita a colpire per ben tre volte nell’arco di quattro mesi, con un bilancio che supera ormai le 150 vittime.

Quello che andrà al voto domani è un paese attraversato da fratture così profonde che viene ormai difficile immaginarne la ricomposizione. Tanto più che le urne potrebbero restituire l’esatta replica di quanto visto a giugno: stando ai sondaggi, pur guadagnando circa due punti percentuali a scapito dei nazionalisti del Mhp, al partito di Erdogan mancherebbero ancora i numeri per governare; mentre i socialdemocratici del Chp e i filocurdi dell’Hdp riporterebbero percentuali quasi identiche a quelle di quattro mesi fa. “L’unico scenario positivo – spiega Mariano Giustino, corrispondente da Ankara per Radio radicale e fondatore del movimento ‘Turchia in Europa subito’ – potrebbe prodursi con una coalizione tra l’Akp e i socialdemocratici, perché questi ultimi spingerebbero per una ripresa dei negoziati con il Pkk, altrimenti impossibile. Un’eventuale alleanza con i nazionalisti del Mhp, invece, porterebbe il paese in direzione opposta, verso una radicalizzazione dei conflitti in corso. Il vero enigma, comunque, resta Erdogan: la sua volontà di condividere potere in un governo di coalizione è tuttora un’incognita”.

Di certo, l’ipotesi più improbabile è un’intesa che comprenda l’Akp e i filocurdi di Demirtas; la cui affermazione alle ultime elezioni è stata causa diretta del primo vero tracollo per il partito di Erdogan. “Quello che pochi sembrano sapere, in Europa – continua Giustino – è che il sud-est curdo, nella sua declinazione più religiosa e tradizionalista, è stato a lungo una delle roccaforti elettorali di Erdogan, che ha finito per perderne i voti dopo i fatti di Kobane. C’è soprattutto questo all’origine del nuovo conflitto con il Pkk: perso il favore dei curdi, Erdogan ha cercato di recuperare terreno presso l’elettorato nazionalista, risvegliando vecchi sentimenti xenofobi e anti-curdi”. Una strategia, questa, che secondo Giustino trasparirebbe anche dalla composizione delle forze armate mandate a presidiare i centri urbani del sud est. “In quelle zone – continua il giornalista, che nei giorni scorsi era a Diyarbakir per un lungo reportage radiofonico – più che l’esercito agiscono i corpi speciali, reparti di polizia che vengono formati e addestrati in funzione anti-curda. Si tratta spesso di esponenti di famiglie nazionaliste, vicine al movimento dei Lupi grigi e tradizionalmente ostili ai curdi. Questi reparti ricordano molto la vecchia Jitem, il corpo segreto che negli anni ’90 fu fondato in seno alla gendarmeria; con la differenza che alla retorica nazionalista se n’è affiancata ora una di tipo islamico”. Si spiegherebbero così gli “Allah akbar” strillati ad agosto, tra le raffiche di mitra, durante il primo assedio della cittadina di Silvan (Diyarbakir); o le testimonianze raccolte a Cizre circa i messaggi intimidatori diffusi dagli agenti all’interno di un blindato, che prima di crivellare un’abitazione armena avrebbero più volte ripetuto nei megafoni “siete bastardi armeni e per questo vi uccideremo”.

“In questo modo – chiarisce Giustino – Erdogan ha perseguito un doppio obiettivo: da una parte ha isolato il sud est, cercando di ristabilire l’equazione tra ‘curdo’ e ‘terrorista’ a fini puramente elettorali. Dall’altro, ha cercato di sottrarre voti al Mhp, dando ai nazionalisti ciò che volevano, ovvero una nuova guerra contro i curdi”. A dare il segno di questa strategia, secondo il giornalista, c’è il fatto “che nei centri urbani la presenza dei guerriglieri è prossima allo zero”. “Quella che è stata presentata come un‘operazione antiterrorismo – conclude Giustino – è in realtà un’offensiva rivolta contro la popolazione civile: dispiegando corpi militari addestrati a trattare ogni curdo come un nemico, il governo sta cercando la guerra civile. E si tratta di una situazione molto pericolosa, destinata a sfuggire di mano, a lungo andare”.

Forse per questo, subito dopo l’attentato di Ankara, il Pkk ha dichiarato un nuovo cessate il fuoco. Ma stando alle testimonianze che arrivano dalla regione, nei giorni successivi l’offensiva militare si sarebbe addirittura intensificata. “A poche ore dall’attentato, in questa zona sono iniziati i bombardamenti aerei” spiega Orhan, 30enne curdo che ad agosto ci aveva accompagnato nel distretto di Lice (Diyarbakir), nelle prime fasi di un’operazione militare. “I caccia hanno colpito più volte un cimitero in cui erano sepolti dei combattenti del Pkk. Dopo due notti di bombardamento, un gruppo di civili ha cercato di raggiungere il luogo: volevano fare da scudi umani, evitando che venisse colpito nuovamente; ma mentre si arrampicavano lungo la collina, quattro di loro sono stati gravemente feriti dalle raffiche dei mitra sparate dai militari”. (ams)

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