Ricordare che ai poliziotti non devi dire “Spas”, grazie in curdo!
di Marco Rovelli – Arrivi a Diyarbakir dal Kurdistan iracheno e ti devi ricordare che ai poliziotti non devi dire “Spas”, grazie in curdo. Qui una lingua continua a renderti sospetto, e non sia mai che ti trovino le foto che hai fatto ai combattenti del Pkk, che per loro sono “terroristi”, o una bandiera del leader Öcalan.
Diyarbakir, famosa nel mondo per le sue grandi mura di pietra nera, i curdi la chiamano Amed, ed è considerata la capitale del Kurdistan. Solo che non si può dire. Un famoso musicista locale, attivista, è stato imputato nei giorni scorsi di “propaganda di terrorismo” per averlo detto durante una manifestazione del partito Hdp. Una condanna per quel reato arriva a vent’anni di galera. Poca cosa, per un popolo abituato da troppo tempo a cose ben peggiori: omicidi a sangue freddo, torture, bombardamenti di villaggi. La scorsa settimana ha avuto grande eco – tra i curdi, s’intende, non certo sui media turchi – l’omicidio da parte delle truppe speciali della polizia di due ragazzini che lavoravano in una panetteria, una vera e propria esecuzione. Un’escalation terrificante, che ha scosso anche quei curdi che avevano creduto alle promesse di Erdoğan, che avrebbe – così diceva – portato a termine il processo di pace. Come il ristoratore da cui ci fermiamo a mangiare con un amico curdo: “Si”, dice, “ho votato Erdoğan, ma mi sono reso conto che erano parole false, con i suoi atti criminali”. İl punto di svolta, per lui come per molti altri, è stata la mancata apertura, lo scorso anno, del corridoio umanitario per Kobane, e la collaborazione con l’İsis. (A questo riguardo sono state nei giorni scorsi pubblicate due interviste a membri dell’İsis fatti prigionieri dai combattenti curdi nel Rojava siriano che confermano ancora una volta come la Turchia fornisca aiuti all’İsis). Del resto Erdoğan ha deciso di distruggere il processo di pace – oltre che per l’affermazione elettorale dell’Hdp, che gli ha impedito di coronare il suo sogno presidenziale – anche per evitare che l’Hpg (le forze armate del Pkk) conquistasse la città di Jarabulus, unendo i cantoni di Kobane e Efrin e chiudendo cosi’ la strada di comunicazione tra Turchia e İsis da cui passa il petrolio che il sedicente Califfato vende a Ankara.
Capisci di essere in un paese in guerra quando vedi i blindati della polizia schierati nella via centrale di Amed, perché nel quartiere di İskender Paşa, nella città vecchia, dove vivono molti aderenti del Pkk, ci sono scontri accesi. E qualche minuto più tardi una squadra speciale della polizia irrompe nel quartiere di Kaynartepe sparando all’impazzata e uccidendo un uomo di quarant’anni e padre di tre figli seduto davanti a casa sua. Capisci ancora meglio che è un paese in guerra quando, il giorno dopo, il pullman per Van (a un’ora e mezzo di auto dalla frontiera con l’İran) si blocca poco prima di Batman (nome inventato dallo Stato, che ha cancellato i nomi curdi di tutti i paesi). Si prosegue dopo qualche ora, e sull’asfalto ci sono ancora i pezzi del blindato fatto saltare dai combattenti del Pkk. Si va a passo d’uomo, ma nessuno protesta, si attende pazientemente. La pazienza, del resto, è una virtu’ dei curdi, che attendono da un secolo la loro liberazione. E da quarant’anni hanno iniziato una lotta: se non fosse che una larga parte dei curdi sostiene il Pkk, come sarebbe possibile che qualche migliaio di combattenti riesce a portare avanti da trent’anni la resistenza armata senza cedere? Che il Pkk sia legato al popolo curdo e non una “scheggia impazzita” è ben evidente in questi giorni, quando la popolazione di intere città (come quella di Varto, verso nord) si ribella, scava trincee, caccia le forze armate e la polizia, e proclama l’autogoverno.
Arrivi a Van, il tempo di mangiare uno spiedino, e senti un’esplosione. “E’ una bomba’, dice l’amico curdo, avvezzo a questi rumori da sempre. La mattina dopo ti dicono che la polizia ha fatto irruzione in una casa lanciando una bomba, stavolta nessun morto, solo quattro feriti. L’indomani è il trentunesimo anniversario di quello che di fatto è l’inizio ufficiale della lotta armata del Pkk, in molti quartieri di Van ci sono manifestazioni, ma ci dicono di non andare: “Non è come qualche anno fa, adesso c’è la guerra, la polizia entra nei nostri quartieri e spara sulla folla”. Tahsin Timur, presidente di Kurdi-der, l’associazione della lingua curda (e qui la lingua è un fatto politico primario, visto che nelle scuole e negli uffici pubblici è vietato esprimersi in curdo, così come il curdo è vietato sulle insegne dei negozi): “Qualche anno fa i conflitti erano solo in montagna, adesso sono scesi in città. İl popolo curdo lo ha voluto: non c’è bisogno di comunicati o direttive, il nostro popolo sa analizzare la situazione da solo e agire di conseguenza”. E continua: “Negli anni ’90 lo Stato turco ha fatto massacri, incendiato villaggi, condotta un’opera di assimilazione incessante. Ma adesso, con l’Akp, è peggio. Noi proponiamo un sistema in cui possano vivere insieme tutte le etnie, organizzato democraticamente, dal basso, e la risposta del governo è questo livello inaudito di repressione. Per questo se venti anni fa il popolo curdo nascondeva le armi, oggi risponde e fa autodifesa. Perché sia chiaro, le nostre azioni sono per autodifesa. Noi non vorremmo uccidere soldati e poliziotti, ma se attaccano noi rispondiamo con l’unica lingua che loro capiscono”.
Sono gli stessi concetti che senti esprimere per strada quando esci dalla sede dell’associazione, per esempio dal bottegaio che vende alimentari e casalinghi (tutto di contrabbando da İraq o İran, ché il Kurdistan è zona povera, niente manifatture o terziario avanzato; e poi, cosi’ non si finanzia il nemico): “Ci chiamano terroristi”, dice con una foga sanguigna, “ma noi non abbiamo mai ucciso bambini, violentato donne, massacrato civili, come fanno loro, Turchia e İsis’. E ancora in questi giorni, come in un copione che non cessa di ripetersi, giungono notizie di villaggi, sia nella zona di Diyarbakir che di Hakkari, bombardati e bruciati. E circola, in rete, la foto – fatta dalla polizia stessa – di una combattente uccisa, seviziata ed esposta nuda pubblicamente.
İ combattenti del Pkk rispondono colpo su colpo, e probabilmente riescono a infliggere più colpi di quanti ne ricevano. E’ di qualche giorno fa, per esempio, l’attacco – a Tatvan, sulla sponda occidentale del lago di Van (dove Van, invece, è su quella orientale) – a un posto di guardia della polizia, fatto saltare in aria: pare che dentro ci fossero trentacinque poliziotti. Ci sei passato davanti arrivando a Van, e ripensi alle ore che hai passato in una casa di latitanza con dei combattenti del Pkk nel Kurdistan iracheno, mentre si guardava un telegiornale, la notizia di un poliziotto turco rimasto ucciso: il comandante – con dei grandi baffi, l’espressione fiera – non fa una piega, non un moto di soddisfazione. Solo, alla fine del servizio, un gesto di sconforto: “Era curdo”. Perché spesso sono proprio le reclute curde a essere inviate nelle zone di guerra.
I combattenti e le combattenti del Pkk che fanno queste azioni sono gli stessi e le stesse che tutto il mondo ha celebrato per la lotta contro l’İsis. Solo che adesso sono tornati a essere “terroristi”. Diceva in proposito Timur: “Se i curdi perdono, il fuoco che brucia il nostro paese brucerà l’Europa. Noi diciamo agli europei di resistere insieme a noi, perché l’İsis può arrivare ovunque. Abbiamo bisogno di collaborazione tecnica, bellica per resistere ai carri armati dell’İsis, non possiamo farlo solo con gli Ak47”. Ma Necmi Kaçlik, esponente dell’Hdp di Van, non sembra avere illusioni: “Lo Stato turco ci ha ucciso con le armi europee. Da quarant’anni aspettiamo il sostegno dell’Europa, che qualcuno dica che quello nei confronti dei curdi è un genocidio. Ma nessuno ha detto niente. Perfino l’İran ha fatto di piu’ dell’Europa, che al suo confronto si ritiene democratica. No, non ci aspettiamo nulla da nessuno. Dobbiamo aiutarci da soli”.
Ti porti via da Van un carico di dolore, racchiuso nelle parole della madre di una combattente caduta lo scorso anno per liberare dall’İsis la città curda irachena di Maxmur, Avesta Harun Firat: “İo lo so, con la mente, che questa lotta è giusta, che va fatta, per la libertà. Ma il cuore di una madre non può capirlo”. Ma ti porti via anche la coesione, la forza e la fiducia di un popolo che sembra più resistente della roccia delle sue montagne, e crede, con ogni fibra del suo essere, nella liberazione che, prima o poi, verrà.
Fatto quotidiano