Fisova
Benvenuta in Kurdistan!
Così mi accoglie un uomo, mentre faccio slalom per scattare qualche fotografia alle montagne di terra create dai militanti del PKK per bloccare la strada che da Diyarbakir porta Lice. Siamo all’altezza di Fisova. Siamo arrivati in macchina, dopo un controllo documenti qualche km più avanti, e costretti a imboccare una strada secondaria per raggiungere il villaggio. La strada principale è chiusa, ci hanno detto i militari, ed è proibito andare.
Raggiungiamo il villaggio come se stessimo facendo una scampagnata. Questa è la sensazione, perchè qui attorno non lo diresti mai che c’è la guerra, se non fosse per il fumo che da alcune zone si alza, e per gli elicotteri combra che si aggirano attorno alla collina. Lì ci sono i militari dello stato turco. Tu non li vedi. Ma loro vedono te.
Alberi, innumerevoli alberi. Mi ricordano il mio Trentino. Ma là non provo quella strana emozione di inquietudine paradossale, che invece provo qui, divisa tra il godermi il paesaggio idilliaco e l’immaginarmi/ipotizzare un’improvvisa esplosione.
Arriviamo al villaggio, e incrociamo un gruppo di ragazzi che sono appena rientrati dopo ore di lavoro per cercare di spegnere il fuoco. C’è un bambino. Avrà 10 anni. Il finestrino della macchina è aperto lui ci infila dentro la testa e ci guarda con uno sguardo serio, diffidente. E’ uno sguardo da uomo. Dopo qualche minuto sorride, all’improvviso. E’ disarmante. E’ tornato bambino in un momento. Ha i vestiti sporchi di fumo e di terra.
Dal balcone possiamo chiaramente vedere, qualche km più avanti, il fumo che si sta mangiando quello che sarebbe stata un annata di cibo per questa gente, i loro guadagni, la loro dignità.
“Ho salvato una tartaruga” ci dice una ragazzo. L’ho vista “correre” fuori dalle fiamme, così l ho presa e l’ho portata qui al villaggio. Il paradosso ci fa ridere in questa tragedia.
Prendiamo la macchina e raggiungiamo il ristorante che si trova sulla strada principale a Fisova e dove fino a tre settimane fa era possibile mangiare una squisitissima ciorba. Ora è chiuso. La guerra è veloce e cambia i lineamenti delle cose rapidamente. Cambia anche i volti. Li sfregia. Il cameriere del ristorante è all’ospedale. Ha perso parte di un occhio dopo un attacco avvenuto dall’ alto. Stava protestano pacificamente insieme ad altri civili.
Oltrepassiamo le montagne di terra e i fossati, e mentre stiamo per raggiungere il ristorante all’estremità di un traliccio dell’alta tensione, vediamo izzata la bandiera Kurda. E’ la prima volta che la vedo e ho un brivido. E’ lontana e il mio zoom non è abbastanza ampio per riprenderla da vicino.. Oggi c’è il vento, in questo agosto asfissiante, e quella stella rossa, in mezzo a quel cerchio giallo che sembra un sole, la puoi vedere bene, fiera e tesa.
Parcheggiamo e alcuni uomini seduti a bere cay ci invitano a sederci con loro. Ogni giorno muoiono almeno 10 civili in Kurdistan. In Europa lo sanno? O sanno solamente quando muoiono i militari, o i combattenti del Pkk? Parliamo di un possibile Kurdistan libero, indipendente, ma la popolazione non sembra essere pronta. Troppe scissioni interne.
Mi allontano un pò per fare qualche scatto. E’ lì che incontro Amed* che mi dà il benvenuto. “Siamo in Kurdistan! Qui sei libera, fai tutte le foto che vuoi, solo stai attenta perchè da lassù ti vedono” Amed parla un ottimo inglese.
Quando per la prima volta sono stata qui, e ho scattato le mie prime fotografie a questo popolo, non ho potuto fare a meno di intitolare quel progetto fotografico “Scars” – Cicatrici. I kurdi sono un popolo pieno di cicatrici, ma sono vivi, di quella vitalità che chi porta cicatrici sul proprio corpo non può dimenticare. Tutto è una cicatrice. Ho visto tanti corpi segnati da ustioni e immense distese di terra bruciata. Le montagne senza alberi. Ma loro resistono. Tutto resiste. Resistono sempre. Resistono dai principati. Resistono dalle false promesse di Sevres. Dopo la caduta dell’impero ottomano sono stati loro i primi a combattere per impedire che il territorio venisse spartito tra le potenze europee. Kemal lo sapeva mentre prometteva un finto stato Turco-Kurdo. Ma poi a scuola ai bambini non l hanno raccontato, che gli hanno voltato le spalle, quando la guerra era finita, quando i kurdi erano morti in nome anche della libertà del futuro stato Turco-Kurdo. Sevres cancellato per mano anche dell’Italia, abbiamo anche noi tante responsabilità. Ma loro continuano a resistere, nel giusto, nonostante tante bugie siano state raccontate, nonostante tanta ignoranza.
Loro resistono, quando potrebbero tranquillamente cambiare bandiera, abbassare la testa, integrarsi in un sistema turco nato da una bugia.
Ode al popolo Kurdo
(Che Dio trasformi i tuoi morti in semi, ed il loro sangue in acqua)
Questa è la tua storia. La tua identità. Il tuo nome. La tua colpa. Sei kurdo e non hai mai abbassato la testa. Hai resistito pacificamente e quando hanno iniziato ad ammazzare la tua famiglia e la tua gente hai reagito prendendo in mano il fucile. Ora ti stanno bruciando la terra, quella terra che dall’alba al tramonto da sempre coltivi, il cibo con il quale sfami la tua famiglia, con il quale guadagni umilmente i soldi per mandare i tuoi figli a scuola. Ti stanno umiliando perché la tua verità sta venendo riconosciuta tra le sedie del potere diplomatico. Non importa quanti morti hai nella tua famiglia, non importa quanti figli hai perso sulle montagne. Non importa, padre, fratello, amico, compagno, amore mio. Ed ora che la tua casa sta bruciando ancora, ora che non riesci ancora ad immaginare il tuo futuro, ora che la parola “azad” (libertà) e “hayat”(vita) sono ancora violentate, ti prego di continuare a immaginare che una soluzione sia possibile. Tu che non imbracci le armi, resisti con le tue parole, con le tue canzoni, con il tuo modo di amare e di stare al mondo, con le tue tradizioni, con i tuoi valori, con le tue danze, con il tuo modo di guardare a questo mondo , con il tuo bisogno di natura e di semplicità. Resisti senza ostinarti. Datti la possibilita’ di immaginati anche altrove, se questo vuol dire sopravvivere insieme alla tua gente. Questa terra è dannata e tu lo sai. Forse Dio ha scelto questo luogo per insegnarci la vita attraverso la morte. Ma forse questa non è più la tua lezione. Ti prego di resistere,se è necessario, trasformandoti. Perche qui o imbracci le armi o muori. E se non muori fuori muori dentro, perché dove c è guerra i sentimenti diventano storie e canzoni, ma i tuoi figli hanno bisogno di fare l amore, non solo di cantarlo.
Da Fisova – Lice – agosto 2015
Marika Delila