14 luglio: la lotta della libertà contro il potere, dal carcere di Dɪyarbakɪr a noi
A Roma, alla Città dell’Altra Economia, si è tenuta nei giorni scorsi l’anteprima italiana del film 14 luglio, del regista Haşim Aydemir. Primo lungometraggio al mondo che racconta la verità sulla prigione militare di Diyarbakir dopo il colpo di Stato del 12 settembre 1980 in Turchia. Due anni dopo, nel carcere iniziava uno sciopero della fame a oltranza. Era il 14 Luglio 1982. Un gruppo di rivoluzionari e combattenti per la libertà intraprendeva così una resistenza senza precedenti contro il sistema di oppressione e i suoi esecutori.
Attraverso la rappresentazione della storia di chi ha amato così tanto la vita da essere disposto a morire per essa, 14 luglio porta a riflettere sul passato, sul presente e sul futuro del nostro tempo, raccontando gli avvenimenti successivi al duro golpe militare che nel 1980 in Turchia ha brutalmente preso di mira la lotta dei curdi per i diritti umani e la libertà, negando e bandendo ogni dissidenza e le loro idee politiche, la loro identità, lingua e cultura. All’interno del carcere n. 35 di Diyarbakir, decine di migliaia di curdi e rivoluzionari in Turchia sono stati incarcerati e torturati nel modo più orrendo. La data evocata nel titolo del film 14 luglio rappresenta il giorno dell’inizio dello sciopero della fame a oltranza, dopo il golpe* che aveva di fatto legittimato, con l’arresto, la morte di più dell’80% dei detenuti tra le mura della prigione militare di Diyarbakir, prigione dolorosamente conosciuta come una delle più crudeli al mondo per le torture e le violazioni dei diritti umani chi lì sono state compiute. Ripresi nell’arco temporale narrativo del film, gli anni precedenti allo sciopero della fame del 14 luglio 1982, sono stati definiti come ” il periodo delle barbarie” e “l’inferno di Diyarbakir” a causa della indefinibile e riprovevole quantità di torture a cui i prigionieri son stati sottoposti, tra cui pestaggi brutali e sistematici, violenze fisiche e psicologiche di ogni tipo, unite a isolamento, costante sorveglianza e intimidazioni.
Nel primo lungometraggio che descrive pienamente la realtà del carcere di Diyarbakir, a partire dalla tenace decisione di resistenza rappresentata dallo sciopero della fame ad oltranza, il regista Haşim Aydemir fa uso dell’intensità delle immagini in bianco e nero per scandire dialoghi essenziali, dando spazio alla durata dei gesti nelle azioni più che a veloci parole nei dialoghi. Ci porta a essere indelebilmente segnati dalla presentazione dell’atroce violenza, dalle torture disumane e dai cori nazionalisti obbligati, dal sadismo tragico, ma soprattutto ci porta ad essere segnati in modo irreversibile dallo spazio eccedente della volontà e della determinazione di chi, con ogni sacrificio, oltre la resa e l’isolamento, ha portato avanti la ribellione e la resistenza nel carcere senza smettere di architettare evasioni, con rivolte organizzate, con trattative dure, testimoniando, contro ogni tradimento e censura, i trattamenti disumani, lottando a costo della vita, nella coscienza che quella sua momentanea fine avrebbe rappresentato un nuovo inizio per un’altra fase storica, in nome di una piena umanità per una resistenza culturale, armata e politica che di fatto non smette ancora oggi di essere portata avanti in nome della loro viva memoria.
Un ruolo di comando nella prigione in quei tempi era affidato all’ufficiale turco Esat Oktay Yildiran. Dal secondo volume dell’autobiografia di Sakine Cansiz, fondatrice del Partito dei Lavoratori del Kurdistan e icona di riferimento della lotta delle donne, arrestata nel carcere di Diarbakir nel 1979 – e assassinata, insieme a Fidan Dogan e Leyla Saylemez, a Parigi dai servizi segreti turchi nel 2013 – sappiamo come fosse stato proprio questo sadico torturatore ad averla accolta al suo ingresso del carcere nel momento del suo arresto.
E sappiamo che Sakine Cansiz risponde al suo torturatore affrontandolo senza paura, perché ha un’idea più alta del fare giustizia, che non deriva dalla legge imposta della sopraffazione.
Esat Oktay Yildiran pretendeva che i prigionieri porgessero saluto al suo cane addestrato alla tortura e pretendeva che, davanti a lui – come facevano i guardiani e il responsabile più alto in grado nel carcere – ci si inginocchiasse. Ma, di fronte a lui c’è Sara, Sakine Cansız**, il cui nome ha un posto d’onore nella storia moderna del Kurdistan e della lotta delle donne. Di fronte ai drammatici tradimenti, Sakine Cansız era stata negli anni della prigionia fermamente decisa a impedire che una delle prigioniere incarcerate insieme a lei passasse al nemico. Ed ebbe successo. Sappiamo dalla sua autobiografia e altre testimonianze che né Esat, né un altro ufficiale fascista riuscirono a muovere una prigioniera della sezione femminile a collaborare con il regime. Ebbe luogo una lotta inesorabile che Sakine Cansız vinse. La figura di Sara si evince solamente in due momenti nel film di Haşim Aydemir, in cui appare chiara tutta la forza della sua figura, a cui di recente è stato interamente dedicato, con la regia di Dersim Zeravan, un documentario sulla sua vita***.
L’uso esclusivo del flashback in 14 luglio è stato riservato ad Esat Oktay. Consegna al torturatore una presenza cronologica di particolare rilievo, iniziale e quasi in finale: posto in apertura del film, in primo piano, al centro della scena, vediamo che Esat Oktay è arrivato già alla sua sconfitta, mentre tremante senza possibilità alcuna di suscitare compassione, negando vigliaccamente la sua identità, si trova in attesa dell’inesorabile esecuzione che verrà mostrata in un secondo flashback, funzionale alla vendetta – in nome del rivoluzionario Kemal Pir, morto al 55 giorno di sciopero della fame**** – contro le atrocità disumane da lui compiute verso tutti i detenuti e verso tutte le detenute del carcere di Diyarbakir.
A decidere dell’esito tra la rassegnazione tragica e l’umanità capace di riscatto, durante il corso del film, sono le azioni portate avanti con enorme dignità di fronte agli atti più disumani. Sono esemplificative le parole pronunciate in risposta alle intimidazioni a terminare lo sciopero della fame, quando, rifiutando una trattativa non adeguata, viene annunciato ai torturatori: «Non sono le nostre morti o le torture ed avervi fatto paura, vi spaventano più di tutto la nostra volontà e la nostra determinazione».
In questo contesto, nel film riprendono vita i primi rivoluzionari del PKK, come Mehmet Hayri Durmuş, Kemal Pir, Mazlum Dogan e Mustafa Karasu, attualmente nel consiglio esecutivo del PKK. Mazlum Dogan, pagò un prezzo altissimo in termini di violenze fisiche e torture subite. Durante i 3 anni di prigionia, attuò una forma di resistenza estrema. Si rifiutò infatti di indossare l’uniforme carceraria o di cantare l’inno nazionale. Il 21 marzo del 1982, il giorno del Newroz (il capodanno curdo) per risvegliare le coscienze nei confronti dei trattamenti inumani in prigione e in segno di protesta contro il regime turco con tre fiammiferi diede fuoco alla sua cella e si impiccò. L’azione di Mazlum Dogan fu il preludio ad una serie di scioperi della fame e azioni di resistenza che i prigionieri politici iniziarono, nel 1982, che portarono, come ricorda suo padre*****, in quegli anni di dura oppressione, al miglioramento di diverse condizioni carcerarie, laddove non erano prima neanche permesse le visite familiari e l’uso della lingua curda.
Se a volte il ritmo lento delle sequenze che mostrano le azioni nella loro ieraticità, ricorda l’andamento del cinema espressionista, Haşim Aydemir va in realtà oltre l’uso scolastico dello stile e si distingue per l’assenza totale di immobilismo retorico: è il realismo espresso dalla volontà dinamica dei rivoluzionari con gesti minimali, e allo stesso tempo immensi, a essere al centro del lavoro di montaggio e di sperimentazione cinematografica, con riprese in soggettiva e cambi di camera che accentuano una partecipazione consapevole all’evento che assume tanto una forte carica soggettiva, quanto di universalità. Le scelte estetiche in questo film sono inscindibili da un profondo senso etico. E risalta non per artificio l’altezza morale dei rivoluzionari incarcerati, descritti senza pietismo o ridondanza di fronte a oscene nefandezze, nella loro umanità più profonda, tanto che la presenza delle sbarre di ferro di fronte ai loro volti sfuma sui primi piani senza tradire neanche per un secondo l’unica viva dignità morale di ognuno.
È il soffocante refrain dei cori imposti dai carcerieri in ossequio al nazionalismo turco che echeggiano nelle marce durante tutto il film – volti a compiere un annichilamento totale dei detenuti – ad essere la parte sonora più oscuramente duratura di un’imperitura violenza. Questo non può che portarci a pensare come oggi, la libertà per cui hanno lottato insieme ad altri e tante altre Mazlum Dogan, Kemal Pir, Mehmet Hayri Durmuş Ferhat Kurtay, Mahmut Zengin, Necmi Oner, Akif Yılmaz, Ali Cicek possa rivivere solamente all’interno della resistenza a modelli che mettono al centro l’uniformazione, sempre tragica e binaria, di omologazione al potere.
Nell’attuale utopia concreta di una società apoista [da Apo, come viene definito il presidente Ocalan, ndr], in cui il senso antistatale e l’antinazionalismo si trovano alla base di una convivenza pacifica tra popoli, non basata sull’etnicismo o la confessione religiosa, in una dialettica aperta ci si colloca invece, contro dicotomie mortifere, nelle differenze come caratteristiche evolutive alla base di questo universo.
Se si pensa, in questo momento storico, alla Turchia odierna post-referendaria, ai piani di monismo identitario e neo-ottomanisti di guerra del regime di Erdogan, alle distruzioni operate nei confronti di intere città curde nel sudest del Paese, all’oppressione dittatoriale contro ogni dissidenza politica in cui versa la Turchia, attraverso ogni tipo di censura e attraverso gli arresti, al panturchismo islamista, non si può non pensare allo sciopero della fame portato avanti, solo due mesi fa, sino al 65° giorno, dai politici democraticamente eletti del Partito Democratico dei Popoli (HDP)****** e viene spontaneo chiedersi quale sia la dialettica di valori alla base di una piena possibilità di svolta e di trasformazione sociale.
L’incarcerazione in massa rappresenta ancora oggi il programma sociale più compiutamente attuato dal governo presidenziale di Erdogan in Turchia. Dovremmo chiederci come mai così tante persone siano potute finire in prigione senza che ciò sollevasse dibattiti di opposizione fattiva davvero netta sulla loro detenzione. Questo ha a che vedere con la dialettica dei valori su cui posizionarsi e che riguarda nel profondo anche il contesto europeo, responsabile con il suo silenzio: oggi da un lato abbiamo un modello statale turco monista e accentratore, che impone attraverso la guerra, genocidi fisici e culturali, attraverso il ricatto sulle migrazioni e attraverso il ricatto economico, un sistema carcerario al servizio del neoliberismo e del potere. Dall’altro, un’idea confederale di una società pluralista, interculturale ed inclusiva, fuori dalle logiche del mercato e della gerarchia, basata sui comitati popolari di pace e mediazione, che vede nell’esigenza della democratizzazione nell’autogoverno e nell’autodifesa la necessaria e principale forma di convivenza nell’autonomia dallo stato e nelle differenze, e che per questo motivo continua, sotto la lotta del movimento di liberazione curdo del PKK a creare un’alternativa visibile a tutto il mondo combattendo per una democrazia radicale contro ogni fascismo. Le tragedie universali, come quella delle innominabili torture nel carcere di Diyarbakir, che riguardano tutto il genere umano e che ineriscono alla sua possibilità di coesistenza in libertà su questo pianeta, in un momento di guerra mondiale, ci chiamano al bisogno urgente di risposte contestuali attraverso l’indiscussa condivisione di valori universali al di là delle leggi imposte dall’uguaglianza normalizzante e omologante del potere mosso da profitto.
14 luglio è stato girato a Diyarbakir durante la distruzione e la resistenza del quartiere di Sur. Haşim Aydemir ha spiegato come la realizzazione del film sia avvenuta perciò in condizioni di notevoli difficoltà. Non solo per la situazione di censura e repressione ad oggi presenti in Turchia – che ha fatto sì che, per tutta la durata delle riprese, si girasse l’opera sotto falso nome – ma anche per la presenza dei bombardamenti dello Stato turco sul quartiere della città di Diyarbakir, durante l’attuazione del film.
A partire da questo scenario, 14 Luglio mette a punto con successo una realizzazione che ha dato merito al grande sforzo compiuto nell’arco dei suoi tre anni di preparazione, anche attraverso il reperimento delle fonti scritte e testimonianze dirette, da parte di persone come Mustafa Karasu, attualmente parte del consiglio esecutivo del PKK, che hanno vissuto gli anni di prigionia post-golpe, raccontandone con forza e autenticità i suoi aspetti e alcuni passaggi. Come quando, quasi in punto di morte, chiamati i familiari al suo letto, il rivoluzionario in sciopero della fame, afferma di fronte ai carcerieri che ci sono persone che vogliono solo uccidere e riescono a continuare a vivere per sè, e altre invece che son disposte a morire, per l’obiettivo condiviso di una vita libera per tutti e tutte. 14 luglio ci dà un’indicazione di posizionamento, con il riscatto finale delle voci libere sollevate all’unisono, laddove la brutalità delle scene ci fa apparire evidente più che mai la precarietà delle nostre parole atte a definire univocamente l’esperienza rappresentata: allora il film diventa un atto di traduzione pratica, un performativo etico, che nel guardare alla resistenza storica pone di fronte ad un’assunzione di responsabilità collettiva richiamando all’azione con quell’amore per una vita giusta che ci ha insegnato chi non si è mai rassegnato amando la vita al punto di sacrificarla. Il film rafforza l’importanza del suo altissimo livello cinematografico nel suo grido di battaglia finale «Vivere è resistere», richiamando all’affermazione dei valori di liberazione di una piena umanità contro ogni guerra e tortura per parte del potere statale turco, primo responsabile ancora oggi dell’isolamento carcerario a Imrali di Abdullah Ocalan.
* Il 12 Settembre 1980 il generale Evren prese il potere inneggiando al ritorno del kemalismo e dell’unità nazionale, abrogando la Costituzione e sciogliendo il Parlamento. In questo periodo il tribunale di Diyarbakyir avviò un processo imputando l’appartenenza al PKK a 2.231 prigionieri. All’ora, come oggi, avvenivano dei veri e propri programmi di rinsediamento demografico della popolazione. Questa pianificazione statistica governamentale avviene di fatto ancora oggi in Turchia con il supporto dell’esternalizzazione dell’accesso alle frontiere per mezzo dell’accordo sui flussi migratori siglato nel 2016, tra Turchia e Unione Europea. Per approfondire si veda anche: http://www.dinamopress.it/news/la-turchia-tra-governamentalita-nazionalismo-e-colonialita-del-potere
** Cfr. Sara Sakine Cansiz, Tutta la mia vita è stata una lotta, Vol. II, Mezopotamien Verlag, Uiki-Onlus, 2016, per la recensione del secondo volume del libro si veda: http://www.iaphitalia.org/sakine-che-ha-lottato-tutta-la-vita-per-la-liberta/
*** Il documentario su Sakine Cansiz intitolato “Tutta la mia vita è stata una lotta” della regista curda Dersim Zeravan, sintetizza i 55 anni di lotta di Sakine Cansiz all’interno del movimento di liberazione curdo: un centinaio di ore di girato hanno realizzato un documentario di un’ora e trentacinque minuti. Il documentario, originalmente in Kurmancî è stato tradotto in più di 7 lingue (inglese, tedesco, italiano, fiammingo, francese, spagnolo, arabo, persiano) per far conoscere la lotta di Sara a tutto il mondo. Il trailer del documentario sottotitolato in inglese è disponibile qui: https://youtu.be/5Pouz_tC1vA
**** Kemal Pir, di origine turca. In risposta alla domanda di Esat Oktay, che lo interrogava a malo modo sulla sua provenienza e sul motivo dell’adesione al PKK, Kemal Pir è conosciuto per aver dato la seguente risposta: “Sono un turco di Gumushane e loro sono i miei compagni. Con cui ho lottato insieme per anni. Tu stai definendo queste persone comuniste e separatiste. Loro non sono separatisti, loro stanno cercando di rimettere insieme questo paese. Ho inoltre rispetto per il loro comunismo. Sono da sempre stato un internazionalista, perciò è naturale per me essere insieme a loro. Non ho mai visto nessuno dei miei compagni curdi esprimere nessun tipo di maltrattamento o sopraffazione verso il popolo turco. Ma di fronte a tipi come te anche io sono indignato e pieno di rabbia”.
***** Cfr. l’intervista http://www.uikionlus.com/mazlum-dogan-nelle-parole-dei-suoi-genitori/
****** Cfr. http://www.uikionlus.com/uiki-appello-per-la-solidarieta-diffusa-con-le-prigioniere-e-i-prigionieri-in-sciopero-della-fame/
Dinamopress